I colori del Salento - Recensioni

I colori del Salento - Recensioni

La lettura dei testi che corredano il cd-rom, si dipana attraverso due strade principali: la prima è quella della visione di un Salento naturale come terra dai colori di una forza e di una bellezza uniche e, dunque, il Salento e i suoi paesaggi, a volte aspri, caratterizzati dall’intensità di una luce canicolare e dalla melanconia del tramonto (Errico, Nocera, Verri, Mauro, Pagano, Bodini). L’altra visione è della calda bellezza di un Salento antropizzato in cui la mano dell’uomo ha cesellato nella pietra ineguagliabili lavori artistici a sfondo sacro e a sfondo profano, ricamando chiese e costruendo palazzi gentilizi dalle forme eleganti.(Blagho, Mauro, Pagano).
L’ulivo (signore e padrone del paesaggio naturale) e la pietra (dominatrice del paesaggio urbano) in una weltanshaung che non è dicotomica ma è, al contrario, fusione e amalgama: tessuto inscindibile cucito in secoli di storia, binomio inestricabile per raccontare e raccontarsi.
Per raccontare che cosa è il Salento non si può che partire da qui. Lasciando parlare i colori. Le pianure altere pigramente distese su un mare che ruba l’azzurro al cielo e con il cielo si confonde all’orizzonte, la campagna coltivata con i suoi fiori e i suoi frutti ricompensa di un lavoro sfiancante perché questa terra salentina è una terra dissodata dal sole implacabile. E poi la pietra, testimone di tutto ciò che è stato, la pietra lavorata nelle splendide architetture o la roccia selvaggia degli scogli.
Questi i motivi ricorrenti nei brani trascelti. Sui quali s’innestano, talvolta, riflessioni sulla difficoltà di vivere in una terra dai forti contrasti ricchissima culturalmente e umanamente ma ancora lontana dall’uscire da una mentalità limitante che mortifica i suoi talenti; una terra fornita di un enorme patrimonio storico, naturale, un “museo all’aperto” che non sa gestirsi (Bodini). E poi ancora la riflessione civile di Fiore sulla assenza di uno Stato.
Nell’ascoltare e nel leggere il corredo letterario del cd-Rom, una espressione colpisce più di tutte ossia quella di
Antonio Errico secondo cui “bisogna avere radici profonde come quelle degli ulivi per raccontare questa terra”. E’ una terra che non si può solo conoscere, per raccontarla bisogna amarla.
Il Salento si può raccontare attraverso le foto, in versi, su tela, ma prima bisogna viverlo. Il Salento è una terra di larghi spazi e lunghi silenzi. E’ una terra per chi non ha fretta. Ha una bellezza pigra e voluttuosa, multiforme. Possiede colori che ammaliano risaltati da una luce che stordisce: il cobalto del mare, il grigio delle chiome degli ulivi, il rosso della terra, il giallo del grano, il verde delle vigne splendidamente raccontati da
Maurizio Nocera


“ (..)E poi c’e il fieno secco dei campi hidruntini
Ed il blu oltremarino sulla distesa del mare
E il verde argentato dei nostri fratelli ulivi”.


E il bianco, il bianco delle pietre e delle case, delle cattedrali, il bianco che assorbe e rimanda la luce


“(…) tu pietra ci appartieni
-non solo ai cavatori stanchi-
E da secoli ci imponi il tuo respirare
Dai monumenti dai muretti di campagna
E dai tuoi tetti”.


Dice C.BLAGHO richiamando, appunto, l’altro elemento essenziale della terra salentina che è la pietra: ruvida o porosa, usata per erigere chiese o costruire i tipici muretti a seccocce scontornano i campi, la pietra è parte del paesaggio e della vita del talentino. C’è chi la lavora, chi la ammira nelle forme sacre e nelle figure apotropaiche dei templi eretti per l’eternità, negli stemmi dei palazzi signorili abbelliti da una manifattura che ricorda quella dei pizzi e dei merletti, da una maestria raffinata, da un’arte che si tramanda di generazione in generazione


“ qui la pietra scolpita si riposa
Su fisse onde calcaree- e senza vele
In se stessa incagliata, altro non osa
Che tramutarsi in astro crudele…
A noi si dona,artefici assolati,
una malìa di calme architetture,
dove l’uomo è il pretesto di un poeta”.


Davvero una magia arcana sembra stregare il passante che si trovi per le vie di un antico borgo salentino, quella “malia di calme architetture” di Vittorio Pagano che è incantesimo e si trasforma in malinconia quando la luce rosta del tramonto accarezza la pietra e promette ristoro, nelle sere estive, dall’alito soffocante del vento di scirocco.


“Qui le pietre sono il tempo passato,
il suo presente, il suo futuro
nelle sculture nulla è perduto
di quanto i secoli hanno veduto”


Così C. BLAGHO fissa e racchiude in un’immagine di pietra scolpita il tesoro artistico e artigianale di un Salento che parla al presente e al futuro, che si raconta nei monumenti litici come un grande libro di storia le cui pagine si sfogliano attraversando le stradicciole tortuose e le vie lastricate di un microcosmo che mescola il passato e il presente in una vitalità nostalgica.
Belle le città salentine. Di quella elegante bellezza che fa di Lecce un gioiello delicato e superbo; belle nel loro inerpicarsi su dolci collinette; imponenti come la turrita Otranto circondata da mura che, tuttavia, non la salvarono dalla furia delle bombarde turche.
Però tra il talentino e la terra c’è un legame ancestrale, un’appartenenza esclusiva che lo avvince in un amore appassionato e lo consuma in un odio feroce. Dice A.Verri


“quello che non cambierà mai
Sarà l’idea del dialogo con la terra
Che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi”


E, nel Salento, l’interprete e il mediatore di questo dialogo, il silenzioso referente di questa comunicazione è l’ulivo. L’ulivo che troneggia, che nobilita, che caraterizza il paesaggio con le sue chiome cangianti; l’ulivo che è la pianta della nostra memoria; l’ulivo che è il retaggio di antichi coloni.


“Il grande ulivo
Il tronco cavo, la scorza rugosa,
in magiche forme si staglia
il grande maestoso ulivo
in basso protende i suoi rami,
che mitica antica saggezza
alla terra riconduce”


Maestoso come lo vede N.Mauro, l’ulivo è anche pianta umile e generosa, pianta di pace.
Il dialogo, dunque, con una terra che dà e che pretende. Con una terra aspra, disseccata, crepata dal sole che pure germoglia frutti e fiori: i limoni, i fichidindia, i gerani cantati dai suoi poeti.(V.Bodini)


“Chi si ricorderà dei limoni
Reclusi nei cortili con le conche
Di pietra e i gatti famelici?
E delle rosse barbe di geranio ai balconi?”


Tuttavia, una terra “di rovine e vigne” secondo V.FIORE che nella sua opera s’interrogò sul destino della sua terra denunciando le attese disattese, guardando alla unione degli abitanti salenentini come unica forza capace di combattere uno stato meramente assistenzialista e, per il resto, assente.
L’amore e l’odio verso questa terra che s’intrecciano nei versi di V. Bodini


“ Qui non vorrei morire dove vivere
Mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare”


un paradosso straziante che pure appartiene a tanti salentini: la necessità di andare via e l’impossibilità di sradicarsi, il bisogno di cercare altre strade e il dover ritornare su queste. Il nostos, il dover ritornare a questa terra di contrasti affascinanti e, a tratti ,crudele che così descrive un altro autore talentino, R.Gorgoni:”dove io nacqui, terra e mare conoscono solo la pace e la guerra. Nell’una restano a confrontarsi immobili e vigili, nell’altra si scontrano con accanita ferocia e la roccia strappa nuvole di polvere all’onda e l’onda schegge di calcare agli scogli.
Marina Manieri